PALAZZO TOSCANELLI

Situato sul Lungarno Mediceo nella Cappella di Sant’Andrea di Foriporta, il palazzo (che solo diversi secoli dopo prenderà il nome di Palazzo Toscanelli) fu venduto nel 1505 da Pier Andrea del fu Salvatore di Piero Pone a Bartolomeo Lanfranchi[1]. Si trattava di una “domus solariata” a cinque piani, dotata di loggia al piano terreno e finestre bifore ai piani superiori. Era composta da strutture medioevali del XII secolo e confinava sulla facciata anteriore col Lungarno e su quella posteriore con via delle Torri Vergate[2] (oggi vicolo delle Belle Torri). Da ciò risulta che nel Medioevo la Via delle Torri Vergate non terminasse sul fronte laterale del palazzo ma proseguisse delimitandolo appunto sulla facciata posteriore. Intorno al 1560, infatti, Federico Lanfranchi, figlio di Bartolomeo[3], incaricò l’architetto di corte Giovan Battista Cervelliera di rilevare la pianta della casa antica e ridurla alla moderna per renderla comodamente abitabile[4]. L’edificio fu ampliato nella parte tergale e via delle Torri Vergate venne perciò interrotta.
Nel 1575, in occasione dei lavori di innalzamento del piano stradale del Lungarno, disposti dal granduca Francesco I, gli aristocratici pisani furono stimolati a realizzare le loro residenze ispirandosi ai modelli fiorentini e fu quindi necessario modificare ulteriormente il palazzo[5], in particolar modo la facciata rivolta verso il fiume.
Il nuovo assetto della città suggerì ai Lanfranchi lo spostamento del fronte principale del loro palazzo sul Lungarno, originariamente situato in asse a Via delle Torri Vergate. Il Cervelliera era scomparso ormai da quattro anni e i fratelli Albizio e Giovanni di Gianfilippo di Federico Lanfranchi[6] si rivolsero a Francesco di Simone Mosca, detto il Moschino[7], il quale aveva lavorato con il Cervelliera alla Cappella dell’Annunziata del Duomo. Per la nuova facciata si rivolsero, nell’aprile del 1576, ai soci maestri scalpellini, Leonardo Bitozzi e Giovanni di Francesco Ferrucci, a cui spettava il compito di fornire il materiale lapideo e fare gli intagli secondo il disegno del Moschino.
La ricca documentazione del cantiere di Palazzo Lanfranchi riporta in dettaglio le misure degli elementi lapidei in macigno (finestre, cantonali, bottaccio, ecc.), riferisce una particolare attenzione alle finiture che dovevano essere “d’aspetto d’uno colore” e lavorate a subbia, e rivela le attenzioni del Moschino sulle forme ispirate agli stilemi dell’Ammannati. È noto che i due artisti s’incontrarono più volte nei cantieri della piazza del Duomo e del Camposanto, dove realizzarono alcuni monumenti funebri parietali. Quello di Francesco Murci riporta l’inconfondibile firma del Moschino nel motivo di un’anfora inserita nel timpano spezzato, tema che egli ha riproposto poi nel Palazzo Lanfranchi di Lungarno Mediceo e che è stato applicato nell’altro Palazzo Lanfranchi di Via San Martino a lui attribuito.
Il nuovo fronte venne articolato da due cantonali laterali lavorati a bugnato sviluppati per tutta l’altezza della facciata, da un basamento in parte liscio e in parte a bozze e da un ampio portale bugnato al centro, sovrastato da una portafinestra con terrazzino. Nei frontoni spezzati delle quattro finestre timpanate del primo piano erano inseriti vasi decorati da mascheroni; al secondo piano erano presenti cinque finestre con semplici incorniciature prive di timpani e l’intera composizione si concludeva in sommità da un cornicione di gronda in pietra.
Ad esclusione dei cantonali, per i quali fu prevista una pietra “buona”, e del “bottaccio” usato per la gronda, tutte le incorniciature delle finestre e del portale furono realizzate in pietra di macigno, ossia in pietra arenaria grigia. Per quanto riguarda il rivestimento lapideo della facciata, Albizio stipulò il contratto con Guido di Michele Taccola da Uliveto per applicare delle pietre bianche della sua cava. La lavorazione delle pietre grezze spettò agli scalpellini Paolo di Battista da Lucca e Gabriello di Michele. Si trattava di una soluzione compositiva innovativa per il gioco cromatico dei materiali impegnati, pietra grigia arenaria per le modanature e bianca calcarea per il paramento, e per l’insolito impiego dei vasi posti nei timpani spezzati delle finestre.
Il progetto deve essere considerato tra i precursori per quanto riguarda il mutamento della facies dei lungarni pisani e costituisce uno dei modelli per le trasformazioni delle dimore aristocratiche pisane.
La ristrutturazione interessò, oltre che la facciata, anche gli interni e il giardino posteriore. Nel maggio del 1582 fu eseguito anche il cavalcavia tra il palazzo e una casetta situata “non in Lungarno ma dietro”.
Nel 1591 il palazzo risulta abitato da Orazio e Muzio di Giovanni Lanfranchi, poi, nel 1632, dal figlio Albizio di Muzio e successivamente passò ai nipoti Ranieri e Orazio[8].
L’edificio rimase di proprietà della famiglia Lanfranchi fino al 1822, quando fu venduto al cittadino livornese Antonio Filicchi; ricomprato dai Lanfranchi nel 1827[9], due anni dopo fu definitivamente ceduto ad Antonio Toscanelli[10].
I Toscanelli possono dirsi un classico esempio della nuova flessibilità sociale tipica dell’Europa tra metà Settecento e fine Ottocento, in piena rivoluzione industriale: partiti dalla Svizzera come muratori in cerca di lavoro, nell’arco di tre decenni videro mutare totalmente la loro condizione sociale, compiendo una rapida ascesa che li portò a diventare prima piccoli imprenditori edili e poi proprietari terrieri iscritti alla nobiltà. L’operazione più significativa ai fini della loro ascesa sociale fu proprio l’acquisto del palazzo sul Lungarno.
Antonio Toscanelli intraprese da subito sostanziali lavori di trasformazione ed ampliamento dell’intero edificio. L’architetto Alessandro Gherardesca fu il progettista della ristrutturazione ottocentesca e del restauro della facciata in cui sostituisce i marmi bianchi della pietra arenaria “guasta dal tempo” delle finestre e dei cantonali, proponendo una reinterpretazione classicista della struttura cinquecentesca. Dei lavori eseguiti al palazzo ne da testimonianza in una memoria del 1929, il bisnipote di Antonio Toscanelli, che così la descrive “della primitiva costruzione rimangono i così detti sotterranei, che sono invece l’antico piano terreno, che dava sul greto dell’Arno e rimase interrato in seguito ai lavori del lungarno ordinati da Cosimo I dei Medici. Nel XVI secolo si erano tolte le finestre bifore e furono sostituite con finestre dello stile dell’epoca, in pietra di golfolina, che la tradizione popolare attribuì a Michelangelo”[11].
Il Toscanelli riporta, inoltre, che “il Gherardesca si propose di rifare le finestre, il balcone e il cornicione in marmo, conservando l’antico disegno del Cinquecento. Ma un tale lodevole proposito in quell’epoca deve aver avuto un risultato relativo perché i pioli alle gradinate del lungarno, il terrazzino, le nicchie sulle finestre del secondo piano ed altre parti della facciata denotano il gusto dell’epoca (ossia del Gherardesca) piuttosto che quello di Michelangelo o di altri artisti del secolo XVI”[12]. E’ evidente che il Gherardesca nella fase di sostituzione degli elementi di pietra arenaria con quelli in marmo non modifica il disegno complessivo della facciata, ma attua piccole varianti in stile neoclassico eliminando le anfore e i timpani spezzati del primo piano e aggiungendo aldisopra delle finestre del secondo pianole nicchie a forma di valva di conchiglia. Per quanto riguarda il rivestimento lapideo della facciata, si può ritenere che quello presente oggi sia ancora originario dei lavori eseguiti intorno al 1580. Nella memoria già sopra citata è riportato che il “Gherardesca osservando che i freschi marmi bianchissimi da lui impiegati per le finestre e le cornici presentavano un contrasto stridente col fondo di verrucano vecchissimo, propose di sabiare tutta la facciata per rinfrescarla e ringiovanirla”. Il Toscanelli si oppose a quest’ ulteriore spesa optando per una tinta che “ridesse il primitivo color bigiastro”, ma in realtà per un errore della formula chimica la “pittura nel prosciugare mise fuori una intensa intonazione gialla che però [era] felicissima ed intona[va] perfettamente ai marmi[13]”. Tale scialbatura fu probabilmente rimossa durante i lavori effettuati intorno agli anni Ottanta del secolo scorso che riportarono alla luce l’antico candore dell’originaria pietra bianca di uliveto. Oltre i citati lavori alla facciata il Gherardesca riconfigurò l’intera disposizione planimetrica del palazzo tramite la parziale soppressione del vicolo posto sul lato sinistro del palazzo, accorpando l’edificio confinante destinato alle rimesse e scuderie dei cavalli. All’interno furono riqualificati i grandi saloni del primo e secondo piano. Dell’antico assetto sembra mantenersi solamente la disposizione del salone di rappresentanza al primo piano, il cui affaccio principale è disposto ancora oggi su via delle Belle Torri, e non sul Lungarno, come avveniva prevalentemente nei palazzi aristocratici.
Dal 1913 l’edificio è sede dell’Archivio di Stato di Pisa.
[1] G. Garzella, Palazzo Lanfranchi: la famiglia e la proprietà, in Un palazzo, una città, 1980, p. 65.
[2] Ibidem.
[3] ASP, Archivi Privati Diversi, 6.
[4] ASP, Comm. , 370, cc.125 e 134v.-135.
[5] ASP, Patrimonio Toscanelli, 1 gennaio 1929.
[6] Albizio e Giovanni avevano anche un altro fratello di nome Jacopo che morì nel 1565 (ASP, Commissariato di Pisa, 370, c. 75).
[7] ASP, Consoli del Mare 2, processo 42, cc. 1124r.
[8] ASP, A.O.S.S., Giornale d’apprensione d’abito, 1575, n. 1800.
[9] ASP, Archivio Toscanelli 955, ins. non numerato.
[10] ASP, Archivio Toscanelli 955, ins. 1. Dalla vendita immobiliare i Lanfranchi esclusero la statua dell’Arpia e la copia dell’Arrotino, concesse successicamente al Museo Nazionale del Bargello (Pizzorusso 1996, p.394), ma anche “i quadri di Fiandra”, il busto di marmo situato nell’ingresso della scala e l’arme gentilizia in legno della famiglia Lanfranchi.
[11] ASP, Patrimonio Toscanelli, 1 gennaio 1929.
[12] ASP, Patrimonio Toscanelli, cit.
[13] ASP, Patrimonio Toscanelli, cit.